Vincent Van Gogh - Notte stellata sul Rodano - particolare (Musée d’Orsay, Parigi)

28 maggio 2009

Dedicato


Questo post è dedicato alla giovane amica che mi ha fatto aprire il blog, ispirandomi anche nella scelta del titolo.
Cento di questi giorni cara, felice compleanno, e grazie di esserci.

23 maggio 2009

Cosa resta vivo di Pisacane?

Giorni fa si è fatto un gran chiasso perché una scuola elementare romana intitolata a Pisacane aveva deciso di cambiare il nome a favore di un pedagogista giapponese.
Chi si ricorda di Pisacane e dei suoi "eran trecento, eran giovani e forti" che morirono in nome di un'utopica libertà socialista? Probabilmente nessuno.
In nome di un multiculturalismo fasullo si rivede la storia a proprio piacimento, un po' come chi a Milano vuole assegnare a degli stranieri l'Ambrogino, il mitico premio nato per quei milanesi che hanno eccelso in qualcosa di importante per la loro città.
Su questa faccenda di Pisacane, eccovi cosa ne pensano il mio amico Berlicche e Pigi Colognesi in un editoriale tratto da Il sussidiario.net

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Berlicche
Sarò cattivo.
Il nome Pisacane è stato dato dall’elite massonica che governava la città centovent’anni fa. In spregio ai cattolici, diedero alle scuole i nomi dei maggiori oppositori allo Stato Pontificio, compreso quello di un cretino e illuso come Pisacane che tentò una rivoluzione velleitaria armi in pugno e finì ammazzato – e, data la sua preparazione, non poteva finire altrimenti. Peccato che con lui morirono anche altri innocenti, i soldati-contadini che lo affrontarono e quei deficienti che lo seguirono. Un bell’esempio per la gioventù: un Che Guevara un poco più sfigato.
Adesso quella stessa elite si è prima comunistificata, e Pisacane andava ancora, e poi ha perso Marx e ogni altro riferimento. Le sono rimaste idee confuse, sessantottine, e non credendo più neanche nel pan cotto non le sono rimaste che confuse teorie pedagogiche. Makigughi per costoro è più reale di Pisacane, perché a forza di sradicare hanno sradicato le proprie radici, anche quelle cattive. Non è questione di multiculturalismo, è questione che non si sa chi si è. E quando non si sa chi si è, sono gli altri a dirti chi sei.


di Pigi Colognesi tratto da [ilsussidiario.net]

Il caso sembra ormai chiuso, ma vale la pena di trarne comunque qualche riflessione. Il caso è quello della scuola materna ed elementare di Roma che aveva deciso di cambiare il proprio nome: invece che all’eroe risorgimentale Carlo Pisacane, si sarebbe intitolata al pedagogista giapponese Tsunesaburo Makiguchi. Motivo? La scuola è frequentata in gran parte da stranieri; ragion per cui risulterebbe più accettabile uno studioso nipponico (siamo nell’epoca della globalizzazione, no?) che un patriota italiano. Proprio su queste motivazioni si sono appuntate aspre critiche: così si perde l’identità nazionale, non è questa la strada giusta per l’integrazione degli stranieri, eccetera. La scuola ha fatto retromarcia e Pisacane dovrebbe rimanere al suo posto.

Viene subito da pensare che Makiguchi e Pisacane sono accomunati da un dettaglio non irrilevante: sono entrambi pressoché sconosciuti - alzi la mano chi ne sa di più sull’italiano che non sul giapponese - e quindi l’uno vale l’altro. Ma sarebbe una conclusione affrettata. L’intitolazione di uno spazio pubblico, infatti, riveste un carattere simbolico, la cui importanza sembra a prima vista sfuggire, ma è molto importante. A fine Ottocento, per esempio, molti consigli comunali italiani dedicarono numerose sedute e affrontarono scontri politici rilevanti al solo scopo di intitolare una strada o una piazza a Giordano Bruno. L’intento era chiaro: i fautori di questa scelta non erano interessati alla sorte del frate bruciato a Roma nel 1600; a loro interessava porre un inequivocabile segno di anticlericalismo negli spazi comuni della convivenza civile. Tutti quelli che avrebbero visto il nome di quella piazza o scritto su una lettera l’indirizzo «via Giordano Bruno» avrebbero pensato a quanto fosse stata scellerata la Chiesa cattolica e tratto le debite conseguenze. Insomma, è per un interesse presente che si decide di celebrare questo o quel personaggio del passato.

Ma allora occorre che l’interesse presente sia realmente vivo e vissuto. Altrimenti il valore passato che si vuole celebrare (in questo caso la – presunta – identità nazionale sgorgata dal risorgimento) e il personaggio che lo incarna (in questo caso Pisacane) non restano altro che reperti archeologici, del tutto insignificanti.

La piazza principale del paese dove ho fatto le scuole elementari è dedicata a Quintino di Vona, un militante antifascista lì fucilato nel 1944. All’approssimarsi del 25 aprile ci portavano a celebrarne la memoria. Quello che risultava convincente non era la retorica antifascista, ma la storia di sacrificio incarnata da Di Vona che i nostri vecchi ci raccontavano e, soprattutto, il loro volto commosso al suo ricordo. Un presente, insomma.

La Chiesa cattolica è una delle più gelose custodi della propria storia, del proprio passato. Non esiste un edificio sacro che non sia intestato ad un santo o un altare che non ne abbia una reliquia; le loro vicende sono continuamente raccontate e celebrate nell’anno liturgico. Ma è solo la partecipazione presente a quello che essi hanno vissuto a renderne interessante la memoria. Se così non fosse, saremmo cultori di cose morte, necrofili.

La domanda è, dunque, cosa resta vivo di Pisacane?

20 maggio 2009

Due re, due regine

Eccoci al dunque, dopo che Wladimiro Guadagno in arte Luxuria l'ex vincitore/vincitrice del Grande Fratello si è lanciata/o in una campagna per far conoscere la cultura del "gender", sì proprio così, sembra che qualcuno le/gli ha proposto di scrivere favole per bambini e lei/lui non si è fatta/o pregare due volte, è diventata/o scrittrice/scrittore, affermando in un recente dibattito in tv in cui si parlava di matrimoni: ne vedrete delle belle, lo sapete che anche Pinocchio è gay?

Su quest'onda di inculturazione gender ecco che a Genova si raccontano a "quattro gattini" fiabe da Gay Pride in cui il protagonista è un principe senza pisellino.

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Tratto da [Tempi] 19 maggio 2009

Per gli organizzatori l’obiettivo era «educare i bambini all’esistenza di diverse tipologie di famiglie. Queste favole puntano su un racconto omoaffettivo, resta il sentimento positivo, solo che a volersi bene sono i protagonisti dello stesso sesso. Non facciamo propaganda, ai bambini insegnamo solo che l’importante non è discriminare le persone in base al colore della pelle, o al sentimento religioso, o alle preferenze sessuali». Così a Genova – con il patrocinio del Comune e della Regione – si è svolto il laboratorio “Due re, due regine”, a cura degli organizzatori del Gay Pride. L’invito era rivolto a tutte le scuole genovesi e i bambini avrebbero dovuto raccontare una loro favola, liberi di esprimersi come meglio avrebbero voluto, a patto che i protagonisti della fiaba fossero lui&lui o lei&lei. A patto che alla fine il principe risvegliasse con un bacio un altro principe, o che la principessa salvasse dalle grinfie del drago un’altra principessa. A proposito di draghi, curiosamente nei panni del cattivo c’era la mefistotelica figura della “moglie”, arpia da mettere sottoterra con un bel colpo di bacchetta magica. Simpatica anche la figura del “principe senza pisellino”, un personaggio nuovo, in effetti, che nessun Perrault o fratello Grimm s’è mai premurato di raccontare. Il miglior commento all’iniziativa è un numero: 4. Tanti erano i bambini che hanno ascoltato le fiabe. Tutti gli altri hanno preferito andare al parco con mamma&papà o papà&mamma.

14 maggio 2009

Lasciarsi riempire di stupore

Pensavo di essere una mosca bianca, troppo sentimentale o troppo infantile anche se già nonna, insomma una che fa esattamente ciò che Marina Corradi racconta nel suo articolo: si stupisce per un piccolo fiore che spunta sull’asfalto o delle nuove foglie germogliate sulle siepi e si sofferma a guardar fuori dalla finestra, anche adesso che non va più a scuola ma lavora otto ore al giorno davanti ad un PC. Grazie, grazie e ancora grazie perché questo per me non è mai stato un male di vivere, ma un grazie a chi mi fa amare e fa tutte le cose che la realtà richiama.


"E tu da dove sbuchi?"

foto di Annalisa V.

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Lasciarsi riempire di stupore di Marina Corradi
tratto da Tempi 12 maggio 2009

«Chi mi ha insegnato a non perdere tempo, così che se mi fermo a guardare una rosa tra le sbarre di un cancello mi rimprovero: non c’è tempo, andiamo? Quale ansia di laboriosità calvinista mi ha trasmesso la città dove sono nata?
In questi giorni di primo caldo e di primavera esplosiva mentre cammino per Milano intenta nel pensiero delle cose che ho da fare, mi scappa lo sguardo sul verde brillante, come neonato, delle siepi, o sull’aprirsi esitante delle rose nei cortili. L’odore dell’erba appena tagliata mi inebria, e mi incanto, a un semaforo, a contemplare il rosso fiamma dei papaveri disordinatamente spuntati fra i binari. C’è come questa interferenza nel corso dei quotidiani doverosi pensieri – banca, dentista, bollette – questa interferenza insistente che nelle mattine di maggio si insinua nell’ordine delle consuete incombenze, e mi distrae. Perché mi verrebbe da fermarmi davanti ai gelsomini fioriti e da annusarne il profumo per non poterlo più dimenticare; mi verrebbe da guardare ad uno ad uno i fiori delle bancarelle del mercato, giacché di ognuno la forma, e il colore, mi stupisce. Ma passo oltre: via, mi dico, hai tante cose a cui pensare.
Ma ho letto la catechesi del Papa del mercoledì 6 maggio, che cita san Giovanni Damasceno: «Bisogna lasciarsi riempire di stupore (thaumazein) da tutte le opere della provvidenza, tutte lodarle e tutte accettarle, superando la tentazione di individuare in esse aspetti che a molti sembrano ingiusti o iniqui e ammettendo invece che il progetto di Dio va al di là della capacità conoscitiva e comprensiva dell’uomo». Commenta Benedetto XVI: «Già Platone diceva che tutta la filosofia comincia con lo stupore. Anche la nostra fede comincia con lo stupore della creazione, della bellezza di Dio che si fa visibile».
Bisogna, dunque, «lasciarsi riempire di stupore». Detto così, sembra il primo umano dovere. Ma allora perché, chi mi ha insegnato a non perdere tempo, a non distrarmi, così che se mi fermo a guardare una rosa tra le sbarre di un cancello mi rimprovero: via, non c’è tempo, andiamo? Quale ansia di laboriosità calvinista mi ha trasmesso questa città dove sono nata, e come mai solo ora intuisco che è importante «lasciarsi riempire di stupore»? (Stupore, ecco, per la vite del Canada che di nuovo germoglia e si arrampica nell’angolo più buio del cortile).
Oppure è stato, in questa stessa bellezza, l’ombra del dolore a scandalizzarmi, a non lasciarmi vedere? Sul diario del ginnasio avevo copiato una poesia di Montale. La so ancora: «Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l’accartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato». È stato lo scandalo del dolore e della morte a tenermi lontana dallo stupore? («Superare la tentazione di individuare aspetti che a molti sembrano iniqui o ingiusti»).
Certo non ho onorato questo compito fondante, di stare davanti alla realtà con occhi spalancati e grati. Quando per un momento tuttavia mi meraviglia la margherita che nasce in una crepa dell’asfalto, mi sgrido, come un bambino che a scuola guardi fuori dalla finestra, anziché alla lavagna. Ma la lavagna vera è questa mattina fulgente di maggio, in cui la vita sorge da ogni fessura.
Imparare a lasciarsi riempire di stupore. Ogni foglia, ogni profumo, come un segno di gesso su una lavagna. La formula è immensa, infinita, incomprensibile. Ma non occorre comprenderla. Basterebbe contemplarla. Basterebbe, pur senza capirla, docilmente amarla.»